Facendo seguito al
mio precedente post in cui Federico Greco intervistava Gino Pellegrini, oggi pubblico, sempre con il permesso di uno degli autori di
Stanley & Us, un'intervista ad uno dei più grandi registi "di genere" - anzi, registi e basta - che l'Italia abbia mai avuto:
Antonio Margheriti, scomparso nel 2002.
A lungo è circolata su internet e negli ambienti cinematografici kubrickiani (e non) la leggenda che Margheriti avesse aiutato Kubrick nella realizzazione degli effetti speciali di
2001: odissea nello spazio. In questa bella intervista Federico - con la collaborazione di Dean Bulletti - aiuta a chiarire i dubbi e ci presenta un bel ritratto dell'ingegnoso regista. Ritroveremo Margheriti in una delle prossime puntate della mia serie di articoli "
precursori".
L'intervista l'ho salvata dallo scomparso sito che la ospitava,
Cinemazip.rai.it. Ne esiste una versione precedente (febbraio 2001) nel
sito di Federico. In quella che vi presento di seguito ho solo aggiunto le due immagini che la illustrano: la prima proviene dal sito ufficiale di
Antonio Margheriti gestito dal figlio Edoardo; la seconda da un interessante sito in cui possiamo leggere una
bella recensione di Space Man.
ANTONIO MARGHERITI, INTERVISTA
Sabato 21 Luglio 2001
di Federico Greco e Dean Buletti
Dopo cento anni Georges Méliès si è reincarnato in uno dei più straordinari creatori di trucchi che il cinema ricordi. E’ italiano e si chiama Antonio Margheriti (o, se volete, Anthony Daisies, o ancora Anthony M. Dawson).
Antonio Margheriti ancora oggi lavora a mano, in totale artigianato, come si faceva nel 1896. Insieme a Riccardo Freda e Mario Bava, ha rappresentato un capitolo fondamentale del cinema italiano, ancora poco riconosciuto dalla storia ufficiale. Ed è anche una specie di "gemello" di Kubrick a cui lo uniscono tantissime analogie.
Anche
2001 Odissea nello spazio è un grande film di fantascienza realizzato esclusivamente con effetti fotografici e con il contributo di decine di scenografi e aiuti scenografi: all’epoca quegli effetti erano all’avanguardia, ma alla luce delle nuove tecnologie digitali sembra veramente "fatto con le mani", nonostante i risultati continuino a rimanere straordinari.
Le coincidenze non finiscono qui. Margheriti non ha mai fatto dei film "normali", è sempre riuscito a metterci dentro delle trovate. Un elemento comune è anche il divertimento: molte volte Antonio era anche autore del soggetto, della sceneggiatura, degli effetti speciali, del montaggio. Un one-man-band come Stanley, ma anche come Russ Meyer o il primo Lucas.
Abbiamo parlato con lui nella sua villa fuori Roma che affaccia sul lago di Bracciano...
Per quale motivo Kubrick la chiamò a collaborare per 2001?
Fui chiamato dal presidente della Metro International, Maurice "Red" Silverstein, perché poco prima per loro avevo fatto
L’arciere delle mille e una notte (1964), un film fantastico in cui c’era una battaglia di tappeti volanti. Questa sequenza colpì molto i dirigenti della Metro, perché non la realizzai come avrebbe fatto chiunque, cioè con semplici bluescreen, ma facendo in modo che questi tappeti volassero in ogni parte dell’inquadratura: addirittura entravano in campo scavalcando la macchina da presa... Fu complicatissimo. A quei tempi, negli anni ’60, non si faceva. Una fatica enorme, anche per illuminare il set: avevamo qualcosa come 20-25 bruti – delle lampade a incandescenza, con l’arco, il carbone... Poteva capitare che mentre avevamo preparato l’ultimo, il primo si stava scaricando. Giravamo un quadro al giorno. Per me che ero abituato a fare i film in due settimane e un giorno (il giorno serviva di solito per gli effetti speciali o i trucchi), fu una fatica enorme, ma devo riconoscere che gli effetti vennero molto bene. Piacque talmente in America, tecnicamente, che Silversteen mi volle a Londra. Andammo a casa di Stanley Kubrick, ad Abbots Mead (la vecchia casa, ultimamente Stanley viveva a St. Albans, nell’Hertfordhire, ndr), una grande villa di campagna. E il film piacque molto anche a Kubrick.
Una scena de L'arciere delle mille e una notte (1964)
E perché rifiutò?
Io sono un regista che non ama pensare, preferisco fare con le mie mani (vedete, sono tutte rovinate e piene di cerotti...). Su
2001 si sarebbe trattato di pensare, e poi io sono uno che ci mette molto poco a fare un film. Lì sarei stato nove mesi... è un mondo che non mi appartiene. Mi chiesero di seguire gli effetti speciali e di supervisionare la parte creativa, proprio perché gli era piaciuto molto il modo in cui avevo affrontato la realizzazione di quegli effetti speciali nel mio film. Avrei dovuto affiancare Douglas Trumbull, il vero creatore degli effetti di
2001. Quando vidi il suo primo film (
2002: la seconda odissea, del 1971) rimasi a bocca aperta. Lui veniva da Cape Canaveral. Era perfetto per quel ruolo, era l’uomo giusto, sarebbe stato capace anche di passare anni su quel film. Io non sarei neppure riuscito a metterci una mano. E poi ero in un periodo curioso... non volevo preoccupazioni. Tanto sapevo che c’era san Silverstein che ogni volta che c’era da lavorare mi chiamava. Lo so, ho perso una grande occasione.
Anche 2001, per molti aspetti, fu un film "artigianale".
E' vero, ma era un artigianato di lusso. Il punto di arrivo è artigianale, ma preparato e studiato... E il lusso era anche che Kubrick poteva permettersi di non spiegare nulla di quello che stava facendo ai produttori. Io ancora oggi mi faccio tantissime domande sul significato di molte scene. Ma come tutti, perché anche alla Metro nessuno poteva dire niente. Dopo la proiezione ci fu un momento di religioso silenzio, perché nessuno aveva il coraggio di dire niente... nemmeno di dire: "Non l’ho capito". Certi sgusciavano via...
Lei ha spesso rifiutato grandi progetti internazionali...
Sì. Fui chiamato anche da Dino De Laurentiis per King Kong. C’era già Rambaldi per i trucchi. Io ho letto il copione e ho detto: "Scusate, sto preparando un altro film".
E’ opinione comune che 2001 abbia rifondato la fantascienza...
No,
2001 l’ha fondata. L’ha fatta. Non si era mai fatta la fantascienza come andava fatta... Poi che quel film abbia delle cose che possono non piacere, che abbia delle scene troppo lunghe...
Prima di quello avevo visto un solo film di fantascienza che mi aveva fatto divertire per i trucchi,
Il pianeta proibito (un film di Fred Wilcox del 1956 in cui appare per la prima volta Robbie il robot), con Walter Pidgeon. C’erano dei trucchi straordinari.
Qual era la situazione del cinema di fantascienza in Italia nel '60, quando lei iniziò con il suo "Space man"?
C’era stato un piccolo film di fantascienza, in bianco e nero, e l’operatore era Mario Bava. Era la fine degli anni '50. Ora non ricordo il titolo...(Si tratta di
La morte viene dallo Spazio, 1958, di Paolo Heusch; Mario Bava è pure curatore degli effetti speciali, ndr).
E il suo Space man?
Era una produzione della Titanus e della Ultra Film di Turi Vasile col quale sto per lavorare di nuovo. Lo realizzammo tutto alla allora Titanus Appia, l’ex "Scalera". L’astronave del film in parte era un modellino dell’astronave per Marte disegnata da Werner Von Braun negli anni '50. Comprai il modellino alla Upim per mille lire. Mi misero a disposizione cinquanta milioni. Ne dovevo spendere quarantotto ma sforai di due.
All’epoca in Italia c’era lo zero assoluto dal punto di vista delle produzioni di fantascienza...
Sì, Vasile riuscì a convincere Goffredo Lombardo (produttore tra gli altri di
Rocco e i suoi fratelli e
Il Gattopardo, ndr). Venne in teatro di posa e vide il modellino con cui mi stavo divertendo mentre all’epoca giravo per loro dei piccoli caroselli... Poi girai
Il pianeta degli uomini spenti.
Quali mezzi aveva a disposizione quando ricostruiva lo "Spazio" in studio?
Il più delle volte avevo un panno nero e davanti delle piccole lampadine. Solo più tardi mi fu consentito di fare dei buchi nel panno e mettere le lampadine dietro.
Perché?
Perché il panno nero costava, ragazzi, mica si poteva bucare... E la Terra era un enorme globo che stava nei bagni degli studi, una specie di lampadario, che io facevo sempre portare via. Era enorme... non riuscivo a trovare in giro una cosa simile, altrimenti l’avrei comprata.
Capitava spesso poi che utilizzassi degli specchi quando non c’erano soldi per rendere interessanti delle scene che avevano bisogno di atmosfere particolari. Nei momenti di crisi chiedevo al mio collaboratore: "Facciamo una specchiata?".
Perché cambiò nome?
Me lo chiesero Lombardo e i distributori americani, perché in un film del genere (
Space man) Margheriti non andava bene. Io lo cambiai in Daisies, che significa "Margherite". Poi dall’America mi arrivò un telegramma, mentre preparavo il secondo film: "Dawson is o.k.?". Antonio Margherite suonava male, poteva sembrare omosessuale: Antonio che va a margherite... Ma ci fu un film, l’unico, che firmai con il mio vero nome. E fu proprio L’arciere delle mille e una notte.
Girava film destinati al mercato americano.
Sì, ma anche all’Italia. Il genere di film che ho fatto è sempre andato in tutto il mondo. Precedevo sempre tutti i generi. Io facevo fantascienza mentre in Italia si facevano i peplum... I western, ad un certo punto, non li avrei voluti fare, perché i primi western, girati in Spagna, erano brutti. Ne ho fatti tre soltanto. Se non nasceva Sergio Leone il western all’italiana non sarebbe mai arrivato al successo mondiale. Io che avevo un mercato all’estero non sarei mai riuscito a vendere un film western se prima non fosse nato un genere.